“Postcards from London”. L’eros in vendita per l’arte

Molto meglio se ciò non mutasse: arte e intemperanza non adrebbero proprio disgiunte. Pena la morte dell’impeto, in un pedante e indesiderabile ordine.

Il cinema ci ha spesso provato a prodursi in film biografici su artisti che hanno lasciato il segno, pur con insalubri attitudini, mentre sono altrettanto pochi i film che narrano di quegli artisti, raccontandoci ben altro, nel solco irrequieto dell’arte.

Come arte e vita, che così vanno intravisti nel successivo binomio (osmotico) antico e moderno. In ciò è riuscito Postcards from London di Steve McLean (2018) narrandoci di Michelangelo Merisi da Caravaggio attraverso un eroe fittizio del presente, ma fresco e riuscito.

Il bellissimo e talentuoso Jim (Harris Dickinson accanto a Ralph Fiennes nel prossimo The King’s Man) arriva a Soho dall’Essex, a nord-est di Londra, in cerca di se stesso e del suo posto nel mondo. Nella prima notte viene derubato, ma trova rifugio presso i Raconteurs, un gruppo di gay squillo fanatici dell’arte quanto del sesso. Ingenuo, curioso e senz’altro da perdere si unisce a loro. Jim però con tutta l’arte che deve imparare se vuole entrare nel clan, scopre pure di soffrire della sindrome di Stendhal, un raro disturbo psicosomatico che gli fa avere allucinazioni. Così il suo lavoro non è sempre facile. I clienti difatti non sono consumatori di sesso a pagamento e basta, ma amanti dell’arte. Sono bizzarri avventori, che cercano proprio i Raconteurs più che per dedizione al buon sesso, come muse per incastonarsi in un universo d’inestimabile valore. Perché musa e cliente inscenano celebri opere d’arte.

People: Harris Dickinson Foto: Diablo Films 2018.

I due poli del film sono Caravaggio e Guido Reni. Ovvero, il dissoluto (nonché assassino) maestro di opere a sfondo religioso specchio stesso però di un’essenza materica e popolare contro il pacato Reni, che unendo classicismo emiliano al caravaggismo formale, elevò quell’impianto a un tono più aristocratico. Se Caravaggio infatti effigiò nel devozionale il senso carnale con prostitute e scugnizzi, Reni lo consegnò al Barocco ripulito e etereo. Ispirato e “depurante” Reni, che tra l’altro a Bologna fu a bottega dai fratelli Carracci, i primi produttori di immagini pornografiche della storia. Immagini comprate poi in tutta Europa, da cardinali, papi, vescovi, principi e vicari.

Sono questi altrettanti poli per Jim: il brutale e sensuale di Caravaggio (il callboy) e il primigenio, puro-estatico di Reni (il sensibile teenager). Davanti a tutte quelle opere entra in uno stato ipnotico; un’estasi che lo astrae dalla realtà circostante e che lo catapulta (Stendhal) dentro l’immagine contemplata, diventandone il soggetto in quegli attacchi.

Sarà così il Cristo deposto o uno dei musicanti de’ Il Concerto di Caravaggio e il bel San Sebastiano di Guido Reni, simbolo di purezza e devozione religiosa. Non per il movimento LGBTQ+, però, di cui è il santo dei santi, per quella nudità estatica e erotica della tradizione, che lo tramanda tribuno romano legato e trafitto dalle frecce di Diocleziano. Che lo fece torturare perché convertitosi per amore in Cristo non cedette alla passione del suo imperatore. Questo il mito. Nella Storia invece fu ucciso per tradimento, proprio perché tribuno che da pagano si fece cristiano.

È proprio nell’estasi d’arte, con la sua libertà svincolata, che Postcards from London ci porta a un gradino superiore. Non si tratta dei soli destini narrati nel film, ma anche dei luoghi nei quali essi stessi si muovono. Non c’è un esterno e il medesimo quartiere di Soho è ricostruito negli Studios ben oltre un set verosimile. Tutto infatti è forzatamente artefatto nelle ambientazioni; oggetti e personaggi sembrano essi stessi frame fotografici di Pierre et Gilles o da tavolozza e cavalletto d’avanguardia. Le luci bruciano tra assordanti lilla, rosa, gialli, azzurri e neri cupi per anfratti e vicoli. Dentro il film però tutto è vitale in senso estremo ma non conforme a ciò che intendiamo per “vita” in senso ecumenico. Per fortuna. Proprio come in Caravaggio.

La vita, con le sue regole, il suo presunto decoro e i suoi modelli di comportamento sono la via obbligata. Oltre a tutto ciò non può esistere nulla, perché subito demanio del giudizio sociale e dei suoi anatemi. Quartieri gay, a luci rosse e personalità come i Raconteurs sono per Steve McLean quella metafora di salvezza tra estetica e senso (anch’essi di disciplina a ben vedere, dell’arte però) che ci proiettano dal comune alla creazione. Che non può permettersi vincoli o limiti, se non quello del rispetto per la vita intesa come esistenza. Ma è proprio quella che l’arte non ha mai messo in pericolo, affermandola piuttosto che dubitarne.

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